Giovanni Morelli

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Giovanni Morelli, in un ritratto di Franz von Lenbach (1886)

Giovanni Morelli (1816 – 1891) politico, critico d'arte e storico dell'arte italiano.

Citazioni di Giovanni Morelli[modifica]

Della pittura italiana[modifica]

  • [Il Sodoma] Se si vuole più intimamente conoscere questo artista tanto dotato di spirito e d'ingegno, che per le sue migliori opere può essere messo allato ai più grandi, si deve andare a cercarlo a Siena in Santo Spirito, San Domenico, San Bernardino, nell'Accademia civica, nel palazzo pubblico, a Monteoliveto. Anche Firenze possiede eminenti opere di lui, fra le altre specialmente il magnifico San Sebastiano degli Uffizi e l'affresco di Monteoliveto. Il Sodoma, massimo come frescante[1], quando vuole è insuperabile. (p. 152)
  • [...] il Sodoma in complesso può essere considerato come il pittore più notevole e più spiritoso della scuola di Lionardo[2]. Nessun altro dei più o meno abili scolari e imitatori del grande fiorentino ha eseguito tante opere che vengono attribuite al maestro stesso, quanto il Sodoma. Gaudente e lietamente spensierato, spesso scapestrato sino al libertinaggio, com'egli era, gli fece difetto anzitutto la serietà e l'ambizione. (p. 154)
  • Eccettuata la pittura murale molto guasta del chiostro di Sant'Onofrio a Roma, non esiste per quanto io sappia alcuna opera del Boltraffio in tutta l'Italia centrale e del sud. La Madonna di Sant'Onofrio, che il dottor G. Frizzoni[3] per primo, e credo a buon diritto, ha dichiarato opera di mano del Boltraffio e non di Lionardo[2], è riconoscibile per opera del Boltraffio non foss'altro all'alto ovale della testa della Vergine, molto caratteristico per questo autore. Nelle condizioni in cui si trova tuttavia questo affresco vuolsi considerare quasi perduto. Chi poi desidera conoscere più davvicino l'austero Boltraffio, cerchi i suoi quadri, la maggior parte piccoli, a Milano sua patria [...]. (p. 159)
  • [...] come Ambrogio de Predis[4], anche Bernardino de' Conti era nel primo decennio del secolo XVI un ritrattista molto ricercato. Non lo si può veramente annoverare tra i grandi maestri, ma tuttavia gli riesce a volte di fare delle opere, dalle quali, come dalla Madonna di Pietroburgo, anche i cosidetti conoscitori della Scuola milanese e di Lionardo[2] possono rimanere ingannati. (p. 194)
  • [Il Garofalo] Non si può negare ch'egli per taluni aspetti e specialmente per quel che si riferisce alle forme esteriori ed al gusto, siasi portato avanti, ma non si può dall'altro canto negare ch'egli nello stesso tempo diventò superficiale, sdolcinato e qua e là vuoto e convenzionale. (p. 210)
  • Mentre il Garofalo nelle opere testé segnalate della sua prima epoca si mantiene artista genuino, naturale, ardito, risoluto e talvolta anche grandioso, altrettanto lontano da quel comune e prosaico realismo che va a genio alle persone grette, quanto da quel nebuloso idealismo, che attrae particolarmente in un'opera d'arte il filosofo e l'estetico con tanto d'occhiali e lo invita a salire nelle nubi, così vediamo lo stesso pittore sostanzialmente mutato nel quadro molto ammirato della nostra Galleria Borghese, ove è rappresentata la Sacra Famiglia con parecchi Santi. Anche in questo quadro il Garofalo è ancora un pittore gentile e coscienzioso, anzi è evidente che per certi rispetti la sua tecnica è progredita, ma il suo disegno è divenuto più fiacco, le sue pennellate più molli, il suo concetto del carattere umano più meschino, più languido, più convenzionale. (p. 210)
  • Il Garofalo è da' suoi compaesani chiamato il Raffaello ferrarese, come i Milanesi chiamano il loro Luini il Raffaello lombardo. Rettamente intese, le due designazioni hanno un senso giusto, in quanto che Luini nella scuola milanese e il Garofalo nella ferrarese occupano lo stesso posto di Raffaello Santi nell'umbra, Francesco Carotto nella veronese, A. [Andrea] del Sarto nella fiorentina, e via dicendo. (p. 212)
  • [Dosso Dossi] Quasi tutti i suoi affreschi nel castello di Ferrara, come quelli del principesco castello di Trento furono distrutti dal fuoco o dal dente del tempo, oppure l'insipienza degli uomini li lasciò andare in rovina. Povero Dosso! Viribus unitis, dovunque si è fatto a pezzi e a bocconi quello che della tua grande attività è giunto sino a noi, e con questi pezzi si è ornato ora l'uno ora l'altro maestro. Talora il Giorgione, tal altra il Parmegianino, il Pordenone, Francesco Penni o il Garofalo. Egli ben merita che lo si rimetta in onore e lo si ponga nella sua giusta luce. Nessun altro artista s'avvicina tanto al suo amico, così ammirato, l'Ariosto, quanto questo pittore col suo spirito sano, sereno e spesso splendido. Qualche volta è sfrenato, di tempo in tempo anche trascurato e leggero, ma nessuno può dire di lui che sia stato rozzo o volgare. (p. 218)
  • Le figure del Pesellino sono sempre sottili e svelte e d'una grande leggiadrìa in confronto delle figure piene, e non di rado tozze del suo maestro Fra Filippo, col quale lo si scambia alle volte. (p. 260)
  • Di questo artista vigoroso [il Romanino], originale e non di raro anche grandioso, sebbene qua e là trascurato, non si trova fuori della città e provincia di Brescia se non un esiguo numero di quadri. Ma tanto più ne son provviste le chiese della sua città natale e quelle di tutta la provincia di Brescia. Nelle gallerie estere, eccettuata la National Gallery, non si trova quasi nulla. Né il Museo del Prado a Madrid, né il Louvre a Parigi, ne la Galleria del Belvedere a Vienna, né le Pinacoteche di Monaco e Dresda hanno quadri del Romanino. Eppure pochi pittori gli si avvicinano per lo splendore e la magnificenza del colore, la vivacità spiritosa dei concetti e pel sapore individuale. (p. 288)
  • Girolamo Romanino fu una natura schietta, affatto semplice, spoglia d'ogni affettazione; il linguaggio dell'arte sua quindi risponde del tutto al dialetto dei suoi concittadini. I pochi ritratti ch'egli ci ha lasciati sono di tale fedeltà alla natura e con tanta ingenuità concepiti e presentati, da mostrare da sé che il, pittore non li avesse adulati, ma ch'essi nella loro realtà fossero stati tali e non altri quali il pittore li ha rappresentati. Questi ritratti del Romanino sono, a mio giudizio, ancora più semplici nel concetto di quelli del Tintoretto e di Tiziano; e i migliori tra essi, [...] vengono subito dopo i più bei ritratti d'un Tiziano e d'un Velazquez. (p. 290)
  • Che i signori Crowe[5] e Cavalcaselle[6], in base alla loro teoria delle influenze, sostengano che il Moretto abbia subito una forte influenza dal Palma vecchio vivente a Venezia, non mi fa meraviglia; quel che mi riesce inesplicabile si è che il sig. direttor Bode[7], il quale pure si ritiene pratico della tecnica dei Veneti, rimanga fedele ai suoi precursori anche in questa opinione, secondo la mia convinzione cosi radicalmente falsa. Questa influenza non è giustificata da alcuna autentica pittura del Moretto. Nel parere mio, il Moretto è rimasto sempre bresciano. Dopo essere stato a scuola dal Ferramola[8], egli studiò specialmente la maniera di dipingere del suo concittadino Romanino e la condusse poi alla sua maggiore perfezione. (p. 291)
  • [Paris Bordon] Le opere capitali di questo piacevole pittore e colorista insigne si trovano pur sempre nel Veneto e a Venezia. L'Accademia quivi ne possiede parecchie e fra queste la sua più bella, voglio dire quel fortunato Pescator dell'anello innanzi al Senato, una pittura che già per la sua eccezionale buona conservazione esercita un incanto indescrivibile sopra ogni fino amico dell'arte. (p. 298)
  • Contemporaneo del Lotto, per quanto più giovane di lui e per cosi dire suo antipode, è Gio. Antonio da Pordenone, natura mondana intus et in cute, non meno nel suo modo d'imaginare che in quello di rappresentare, artista di altiere, cavalleresche tendenze, nato nella città di Pordenone nel 1483, morto a Ferrara nel 1539. Ottone Mündler lo paragonò, e direi con ragione, con P. P. Rubens, in considerazione della vivace energia della sua natura, ed il suo amore per l'ampolloso e pel colossale. (p. 308)
  • [...] il Pordenone non diventò mai convenzionale. Questo artista geniale, fantasioso, e non di rado anche grandioso, il quale lungamente a Venezia, e per verità non senza successo, contese la palma a Tiziano, si chiamò ora Sacchiense, ora de Cuticellis ed anche Corticellis, altre volte poi Regillo, e ci fa conoscere anche, con questo perpetuo scambio di nomi, l'irrequietezza del suo carattere orgoglioso e ambizioso. (p. 308)
  • Fatto piuttosto per la pittura murale che pei piccoli quadri da cavalletto, egli [il Pordenone] ci lasciò però anche un gran numero di pitture ad olio, alcune delle quali sono tra le più attraenti che l'arte veneziana abbia prodotto. Mi basti rammentare i quadri che possiede di lui la città di Pordenone, i due grandi quadri d'altare nell'Accademia di Venezia, la Madonna a San Giovanni Elemosinario, il San Martino a cavallo a San Rocco, la stupenda tavola d'altare nella chiesa parrocchiale di Susegana, l'Adorazione dei pastori a Santa Maria dei Miracoli alla Motta (presso Treviso), non che la Madonna splendida sul primo altare a destra del Duomo di Cremona. (p. 308)

Le opere dei maestri italiani nelle Gallerie di Monaco, Dresda e Berlino[modifica]

  • Nelle sue pitture dell'anno 1502 (presso il conte Cavalli a Padova) fino al 1515 (la gran tavola nella chiesa di S. Spirito a Bergamo: rappresentante il Battista sopra un piedestallo tra quattro Santi), il Previtali si mostra sempre fedele, diligente e scrupoloso scolare e imitatore di Giovanni Bellini, un po' noioso e casalingo nel concetto e nella rappresentazione, ma stupendo nel colorito e delizioso nel paesaggio. (p. 182)
  • Quando verso la metà dell'anno 1515 Lorenzo Lotto prese stanza a Bergamo, per eseguirvi la sua gran tavola per la chiesa dei domenicani (ora collocata nella chiesa di S. Bartolomeo), il Previtali s'ingegnò in parecchie sue opere di quegli anni di imitare il Lotto, e vi riuscì tanto bene, che alquanti quadri di lui furono attribuiti a L. Lotto [...]; eppure l'indole artistica dello spiritoso e nervoso Trevigiano [Lotto] è essenzialmente diversa dall'umore alquanto sobrio del Bergamasco! (pp. 182-183)
  • Lorenzo Costa si trasferì intorno all'anno 1483 da Ferrara a Bologna. Si asserisce dai più che, a dir molto, il Francia imparasse probabilmente da lui il meccanismo della pittura, ma, che, divenuto alla sua volta eletto maestro del pennello, egli deve avere avuto grande influenza su Lorenzo Costa. Qualsivoglia giudice spassionato il quale paragoni questi quadri del Costa, dei primi del XVI secolo[9], coi suoi gran quadri a tempera dell'anno 1488 nella cappella Bentivoglio (chiesa di S. Iacopo maggiore) a Bologna, potrà difficilmente negare che in tutte queste pitture le quali comprendono uno spazio di circa sedici anni, non vi sia un'impronta comune. E nella cappella di S. Cecilia, (presso S. Iacopo maggiore a Bologna) dove i due maestri dipinsero l'uno accanto all'altro negli anni 1505 e 1506, noi restiamo davanti a quelle magnifiche pitture a fresco perplessi nel giudicare se il Costa abbia imparato dal Francia o piuttosto questi dal Costa. (pp. 248-249)

Note[modifica]

  1. Autore di affreschi.
  2. a b c Leonardo da Vinci.
  3. Gustavo Frizzoni (1840–1919), critico d'arte italiano.
  4. Giovanni Ambrogio De Predis (1455 circa – 1509), pittore e miniaturista italiano del gruppo dei leonardeschi.
  5. Sir Joseph Archer Crowe (1824–1896), diplomatico e critico d'arte britannico.
  6. Giovanni Battista Cavalcaselle (1819–1897), scrittore, storico dell'arte, critico d'arte e patriota italiano
  7. Wilhelm von Bode, pseudonimo di Arnold Wilhelm Bode (1845–1929), storico dell'arte tedesco e direttore dei Musei statali di Berlino.
  8. Floriano Ferramola (1478 circa–1528), pittore italiano.
  9. Si riferisce ai quadri La presentazione di Cristo al tempio e il Rimpianto di Cristo.

Bibliografia[modifica]

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